UNA PAROLA STRAORDINARIAMENTE AMICA

Testo a cura di Alessandra Deoriti e Giancarla Matteuzzi

Casa Editrice Dehoniana Libri, Bologna, 2009

Omelia del quarantesimo

È parso bene dare un qualche rilievo a questo mio anniversario – quarantesimo! – di ordinazione presbiterale.

Certe ricorrenze possono dare un impulso non solo a richiamare fuggevolmente alla memoria, ma anche a ravvivare il significato e, diciamo pure, la grazia di un qualche momento intenso della nostra vita, o meglio di una decisione che ha dato un’impronta fondamentale all’esistenza di una persona [alla nostra esistenza][1]: e si tratta, in tante circostanze, in particolare quando si può, o addirittura si deve, avere il coraggio di parlare di “vocazione”, si tratta dicevo di una decisione che arriva come risposta a una serie di segnali, d’inviti, di eventi, di parole che si fanno sempre più urgenti e pressanti, finché uno arriva a dire: “È vero, è giusto, va bene, non posso fare altrimenti, davvero bisogna…”.

Quando sono diventato prete quarant’anni fa, c’era ancora un buon numero di seminaristi che trascorrevano in Seminario già gli anni degli studi medi, prima di passare a quelli teologici; io ci andai molto dopo: mi ero laureato piuttosto giovane, ebbi presto qualche possibilità di cominciare a lavorare nella scuola e, in una forma ancora di precariato, in università, ma intanto non avevo una previsione netta e tranquilla della scelta di un modo di vita, anche perché avevo cominciato già in età adolescenziale a pormi domande inquiete e anche tormentose sulle mie intenzioni profonde, su interminabili particolari del mio comportamento quotidiano, sul senso, sulla possibilità, sul bisogno di un’adesione di fede e su una casistica morale intricata e – oso dire – tendenzialmente paralizzante. Chiedo scusa se parlo tanto di me; e certo non intendo proporre qui ora un capitolo di autobiografia; ma sono convinto di poter dire oggi che quel che allora costituì per me una fatica anche gravosa, riducendo non poco progetti di lavoro e, perché no, uno slancio vitale giovanile (cose che sembravano, per altri aspetti, a portata di mano)… questi ostacoli, dunque, e rallentamenti in cui mi trovai impigliato ebbero anche l’effetto di sgombrare davanti a me progressivamente il terreno da varie aspirazioni, progetti, desideri che, anche se in modo non ben definito, mi portavo dentro.

Non mi nascondo che di ciò che sto dicendo qualcuno potrebbe proporre interpretazioni riduttivamente psicologiche [un’interpretazione soprattutto psicologica]; ma sono quietamente convinto che l’interpretazione più vera deve tener conto del modo di procedere amorosamente misterioso di quel Dio che sa mettere ostacoli sulle nostre strade, per convertirci alla sua; di quel Signore che, come recita un salmo (39 [38], 12), arriva a “corrodere come un tarlo” i nostri tesori umani per indurci a cercare la sua perla preziosa (e per giungere a questo non è necessario diventare presbitero o monaco! Ma sto dicendo qualcosa della mia vicenda).

E arrivai a decidere, e diventai prete nella festa di S. Andrea apostolo, il 30 novembre 1963; chiaramente, in questo itinerario fui aiutato da tante persone care, da sacerdoti, da vescovi; fu d’importanza decisiva il fatto d’esser condotto ad apprezzare con progressiva riconoscenza e dilatazione del cuore, la parola della Sacra Scrittura come parola amica che “nel rivelarsi illumina” e “dona saggezza ai semplici”. Ma non possiamo ora fermarci a sviluppare, pur brevemente, questo aspetto.

Ho riguardato, in questi giorni, l’immagine-ricordo che feci preparare allora: c’è una bellissima figurazione dell’annuncio a Maria (modello, per noi cristiani, dell’annuncio di fede e dell’accoglienza della parola, culminante nella risposta ultima di Maria “sono la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola”); e sono riportate alcune citazioni di testi, fra cui voglio ricordare qui 2 Cor 3,4-6a:

Questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio. Non però che da noi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi stessi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti ad una nuova alleanza ….

In questi quarant’anni ho avuto conferme numerose della verità della parola dell’apostolo.

Desidero e chiedo di avere una fiducia immensa, pur nella debolezza personale frequentemente sperimentata.

Desidero e spero di meditare con passione, stupore, gioia quella parola che mi giunge nel nome del Signore.

Di qualcosa della meraviglia del Vangelo desidero e prego di essere testimone con umiltà e verità.

Chiedo di saper dire, narrare, evocare, annunciare qualcosa che aiuti a desiderare il nome di Dio.

Vorrei saper esprimere un po’ di quell’amore che mi ha raggiunto per misericordia di Dio; sì, saperlo interpretare con gesti e parole che di quell’amore abbiano un qualche calore e buon profumo – il desiderio è che ciò sia sempre, in ogni circostanza, con chiunque: prioritariamente per i poveri e i piccoli, verso i quali il nostro Signore ha mostrato molti segni di predilezione.

Nei confronti di tutti questi desideri e preghiere non mi è difficile ricordarmi di numerosi errori miei personali, ritardi, superficialità, disattenzioni, irritazioni, timidezze e così via: in particolare penso ad un’attenzione ai poveri che si è tradotta frequentemente in gesti inadeguati, con modalità improprie e deludenti talora forse addirittura controproducenti, e con poco riguardo ai disagi recati ad altri. Qui con particolare intensità chiedo di saper veramente voler bene ai poveri in modo più semplice, più efficace e più povero; perché voler bene veramente ai poveri ci avvicina a Gesù, a Dio; e ha in sé il significato e l’esigenza di cercare con tutto il proprio essere la pace; e questo vuol dire cercare, per quanto possibile, l’eguaglianza tra gli uomini (vedi 2 Cor 8.13-14), e forse anche un po’ soffrire di saperlo fare così poco di sentirsi prossimo all’altro e dall’altro farsi sentire tale.

Un amico, povero, con qualche precarietà di salute, letteralmente analfabeta, ha non di rado delle intuizioni teologiche; qualche giorno fa mi raccontava di un amico suo tunisino che fino a poco tempo fa dormiva in una macchina abbandonata: poi questa macchina fu rimossa e adesso, diceva, “dorme fuori e ha freddo e si ammala, poverino”; e commentava “piange il cielo, piange il cielo”.

Raccontare il Vangelo, piangere con chi piange…; un bell’impegno per un presbitero (e per ogni discepolo di Gesù). Certamente non l’ho saputo fare come è giusto (ma è forse fin troppo facile dir qui queste cose). Per questo, e per altro ancora, bisogna che io chieda scusa a non pochi, anzi sostanzialmente a tutti; e che ringrazi tutti, da coloro che mi hanno aiutato a decidermi e a camminare sulla via, agli amici che negli ultimi mesi mi hanno sostenuto e incoraggiato, in particolare a d. Alfredo che, dopo quasi trent’anni di vita sacerdotale trascorsa tra noi, sta per lasciare questo servizio (rimanendo peraltro nel territorio): lo ringraziamo per la sua umiltà, umanità, sollecitudine, benevolenza, fede che ci ha testimoniato e mostrato.

Nella prima lettura di oggi da Geremia abbiamo ascoltato l’immagine di un “germoglio di giustizia” in cui riconosciamo un’allusione al Messia, al Cristo, a Gesù; e riconosciamo insieme di esser coinvolti nel suo progetto: un’umile forza vitale che resiste e conduce verso la pace.

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[1] Tra parentesi quadre le varianti presenti nel manoscritto.


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