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Liberaci dal male

Omelia di Don Paolo Serra Zanetti

Gesù ci ha affidato una preghiera che, dall’inizio, suppone i cieli aperti del suo battesimo (Mc 1,10 e par.), rivolgendosi al Padre, il nome di Dio detto nella confidenza fiduciosamente e lietamente filiale - come per Gesù e naturale” e vuol diventare tale per chi desidera ascoltare e seguire lui.

E tutta una richiesta, come si conviene a bisognosi; e, per un momento, può essere sorprendente che si chiedano anzitutto cose che riguardano Dio: la santificazione del nome, la venuta del regno, il compiersi della volontà; ma presto ci si rende conto che questa “preoccupazione per Dio” coinvolge in radice la nostra umanità, il senso della vita, la speranza nello splendore della verità, l’urgenza di quella giustizia che è la pienezza della pace.

E vien fuori il nostro essere creature deboli, l’umiltà del giorno per giorno, il pane della sopravvivenza, della resistenza, anche di un qualche benessere; e l’esperienza dell’errore, dell’incomprensione, dello scontro, unita al sospetto angustiante di un debito troppo difficile: ma insieme, e ancor di più, il ricordo - e la grazia - di una possibilità che ci è data di operare per la riconciliazione, e con ciò stesso- e ancor prima - la speranza umilmente forte in una intenzione divina, paziente, instancabile di ricomporre, di acquietare, di guarire.

Le ultime due richieste - che possono anche considerarsi una sola, espressa sotto due aspetti -mettono in luce nettamente la situazione di rischio che è propria della condizione umana: l’ultima parola, addirittura, è “il male” (o, forse più probabilmente, il “Maligno”, il tentatore, il Satana, l’accusatore, il divisore - come qualcuno l’ha interpretato -, presenza frequente nel Nuovo Testamento e, in particolare, negli scritti evangelici), mentre la prima parte della preghiera, come sappiamo e abbiamo ricordato, è il “Padre”.

Nella versione di Luca, più breve, l’ultima parola è “tentazione”: sia in Matteo sia in Luca, una finale “inadatta” di preghiera; è vero che è stata tramandata (non nei più antichi manoscritti) anche una conclusione dossologica: “perché tuo è il regno e la potenza e la gloria nei secoli.

Amen”, come era - ed è -“normale” nelle preghiere; ma la chiusa poco prevedibile del testo più antico ci ricorda, forse in modo più stringente, la condizione di figli di Adamo, sempre esposti alla vecchia suggestione di slittare nella convinzione, per un poco attraente nel suo apparente realismo, che la parola è solo la nostra.

La preghiera di Gesù, tramandata da Matteo e da Luca, proprio in questa seconda parte, in queste richieste che riguardano l’uomo, svela la preoccupazione di Dio, che cominciò ad essere esplicita fin dalla domanda iniziale: “Adamo, dove sei?” (cfr. Gen 3,9) e si è manifestata molte volte e in diversi modi, fino alle “forti grida e lacrime” del Figlio di Dio, che imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,7-8), lui che è “sommo sacerdote” (totalmente impegnato a condurre gli uomini a Dio), che sa “compatire le nostre infermità, essendo lui stesso provato in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Eb 4,l5).

“Non ci indurre in tentazione” costituisce, nella sua formulazione, una difficoltà ricorrente; già nell’antichità cristiana si è proposto d’intendere “non permettere che siamo indotti” (Tertulliano ha “spiegato”: “... da colui che tenta”, La preghiera 8,1), e anche di recente, in una motivazione di linguistica ebraica si è sostenuta la resa: “fa’ sì che non entriamo in tentazione”; si è anche suggerito che “indurre/condurre” equivalga qui a “lasciar soccombere”, e Ilario di Poitiers, nel quarto secolo, interpretava: “non ci abbandonare a una tentazione che non possiamo sopportare (Sul salmo 118, 15, cit. in P. Stefani, Il Padre nostro, Marietti, Genova 1991, p. 87).

È assai significativo il confronto con il Trattato delle Benedizioni nel Talmud (Berakòt 60 b): “Non pormi in potere del peccato, né in potere della colpa, né in potere della tentazione, né in potere dell’ignominia”. Ed è nota la parola confortante dell’apostolo Paolo (1Cor 10,13v: “nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza di sopportarla”. Nella lettera di Giacomo poi, probabilmente per correggere interpretazioni fuorvianti del “non indurre”, si precisa (1,13): “Nessuno,. quando è tentato, dica: ‘Sono tentato da Dio’; perché Dio non può essere tentato dal male” (vedi fino versetto 15).

Ed è soprattutto degno di attenzione il fatto che, nella tradizione sinottica (compreso Marco, che non ha il”Padre nostro”), Gesù, nel tempo dell’angoscia e della preghiera al Getsemani, raccomanda ai suoi di pregare “per non entrare in tentazione” (Mc 14,38 e par.); in particolare, in Luca, dopo un primo invito (22,40), Gesù, rialzatosi dalla preghiera (22,45), rivolge ai discepoli che “dormivano per la tristezza”, l’incoraggiamento ad alzarsi e, ancora, a pregare “per non entrare in tentazione”(22,46).

La fiducia di non soccombere è radicata nella preghiera, unita alla preghiera di Gesù stesso al monte degli Ulivi e, nella redazione lucana, poco prima, nelle parole rivolte a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano, ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”(22,31).

Si può forse osare dire che la storia umana, con le sue complessità e contraddizioni e fuorviamenti e sofferenze, è diventata un rischio anche per Dio: è un paradosso, suona blasfemo per qualcuno; ma che dire della passione e della croce? Resta che la tentazione e la prova sono condivise e partecipate da Gesù:guardando a lui, si va ritrovando il coraggio, e sulla paura prevale la confidenza.

Santa Teresa di Gesù - dunque, non un’esegeta, ma certo un’esperta di Vangelo - scrive nel Cammino di perfezione. 41 (cit. in S. Sabugal, Il Padre nostro nella catechesi antica e moderna, ed. it. a cura di M. Nicolosi, ed. Dehoniane, Roma 1994, p. 350): “La sicurezza completa non possiamo averla su questa terra: essa, anzi, ci sarebbe assai pericolosa. Ed è questo che il nostro Divin Maestro volle farci intendere quando, al termine dell’orazione, disse al Padre quelle parole di cui Egli conosceva sì bene la necessità”.

“Liberaci dal male”, o “dal Maligno”: se anche si mantiene la traduzione più corrente, non c’è dubbio che nel Nuovo Testamento ciò che può essere male per l’uomo viene frequentemente connesso con l’insidia fallace e aggressiva di questo “personaggio” che è detto anche “omicida fin dal principio” e “menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44); comunque si possa tentare d’intendere una personalità demoniaca - e pur dando spazio a considerazioni di storia della cultura e del sentire religioso -, sarebbe sbrigativo voler eliminare razionalisticamente l’inquietudine di questa presenza, contentandosi di azzerarla come datata; d’altra parte, non si tratta di riproporre uno schema manicheo: e questo “male oscuro”, “peccatore fin dal principio” (1Gv 3,8), pur non cancellato, viene presentato come radicalmente sconfitto e, in questo senso, “svuotato”, nella testimonianza complessiva degli scritti neotestamentari; in sintesi felicemente efficace: “Il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo (1Gv 3,8)”.

Ma siamo ancora, si può dire, in un tempo intermedio; e, in ogni caso, il male ancora c’inquieta, ci deprime, ci turba, ci tribola; e affiorano, talora lacerano, i “perché” dolorosi di quel che sentiamo o temiamo come “caso e necessità”. Chi ha ricevuto la preghiera di Gesù sa che può e deve dire, a volte, o spesso gridare: “Liberaci dal male”; “liberaci”, “salvaci” ..., invocazioni frequenti nei salmi, e in tante umane ricerche di preghiera. Quando il male è desolante e i tentativi di spiegazione faticosi, o addirittura sembra imporsi un silenzio senza consolazioni, chi ha cominciato ad ascoltare e ad amare la Voce riscopre la possibilità e l’urgenza di “levare il capo” (cfr. Lc 21,28); il ricordo della “beata passione” e della croce riapre lo spazio della “differenza”.

Origene, conoscitore appassionato e amatore commosso della Parola testimoniata nelle Scritture, arriva a dire audacemente: “Il Padre stesso, Dio dell’universo, lui che è pieno di longanimità, di misericordia e di compassione, non soffre forse in qualche modo? O forse tu ignori che, quando si occupa delle cose umane, egli soffre una passione umana? Infatti ‘il Signore tuo Dio ha preso su di sé i tuoi modi di vivere, come colui che prende su di sé il suo figlio’ (Dt 1,31, in una interpretazione della versione greca dei Settanta). Dio prende dunque su di sé i nostri modi di vivere come il Figlio di Dio prende le nostre passioni. Il Padre stesso non è impassibile! Se lo si invoca, egli ha misericordia e compassione, egli soffre una passione d’amore, si immerge in sentimenti che non può avere secondo la grandezza della sua natura e prova a causa di noi passioni umane” (Omelia su Ezechiele 6,6, cit. in D. Gonnet, Anche Dio conosce la sofferenza, tr. it., ed. Qiqaion, Magnano-BI 2000, p. 28).

Poiché s’intravede, un po’ più da vicino, la verità di questo Padre al quale ci si rivolge, il “liberaci dal male” diventa, in un cuore dilatato (salmo 119,32), speranza che non delude (Rm 5,5).


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