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Luigi Accattoli: dalla prefazione del volume "LA SPERANZA RESISTENTE"

Il santo che si scusa della sua carità

Ho suggerito alle curatrici del volume di mettere molte foto, perché don Paolino per capirlo forse basta leggerlo, ma per amarlo giova averlo visto. Questo volume minore dei suoi scritti – che esce dopo la raccolta dei testi universitari – ha appunto lo scopo di tenere vivo l’affetto che ha suscitato e, se possibile, di comunicarlo a chi non ha avuto la sorte di incontrarlo.

Perché don Paolino, nella singolarità della sua figura umana e cristiana, era come il tesoro nascosto in un campo – di cui parla il Vangelo di Matteo – nel quale un uomo si imbatte: tanto più prezioso, si direbbe, quanto più il suo rinvenimento risulta casuale.

Inestimabile riusciva – e ben presto – per ognuno che l’ascoltasse, il suo apporto d’anima. Ma egli non faceva nulla per segnalarsi, o semplicemente per restare in contatto, per farsi trovare. Un nascondimento del tutto consapevole ma anche del tutto naturale, come di un sapiente che evita l’attenzione, ma anche come quello del tesoro che non sa il proprio valore.

Lo conobbi alla fine degli anni sessanta nella Fuci, dove tutti lo amavamo ma dove era impossibile tirarlo a ruoli che uscissero dalla lectio. La conoscenza si fece ravvicinata nel mio periodo bolognese, quando ebbi la fortuna di partecipare alle sue letture bibliche settimanali, a San Sigismondo, per quasi tre anni, dal 1973 al 1975. Potei godere appieno dei suoi doni: la grande cultura e la timidezza fatta uomo, l’occhio intelligente e lo sguardo mansueto.

Già allora gli piaceva tantissimo l’espressione con cui Gesù – in Luca 21, 28 – invita i discepoli a reagire alla tribolazione nell’attesa del suo ritorno: “Alzatevi e levate il capo”. Quell’espressione ricorre più volte in queste pagine e si avverte che era per lui – che il capo si direbbe l’abbia tenuto sempre chino – come una consegna decisiva di riscatto e di speranza. Me la ripeté dopo un lutto che mi aveva colpito, guardandomi con raddoppiata tenerezza.

Il volume riporta vari esempi di lectio, sempre sapienti e dunque questo è l’aspetto della sua vita che meglio può essere colto e goduto da chi non lo conobbe. Ascoltandolo dal vivo, si aveva in più una migliore avvertenza dell’umiltà del suo porgere. Se non ti concentravi, potevi credere che fosse negato alla comunicazione. La sua presentazione dei brani scritturistici era invece straordinariamente viva, ma tutta subordinata al principio che il lettore non debba gettare la minima ombra sulla lectio. Quella di don Paolino era una voce sottotono e fuoricampo, che solo voleva riflettere la Parola e non chiedeva alcun ascolto per sè.

Poi vi furono gli incontri occasionali, con i miei ritorni a Bologna. Lo trovavo agli appuntamenti maggiori dell’Istituto per le Scienze religiose di via San Vitale, dove sempre ascoltava e mai parlava, come del resto faceva in ogni altra occasione pubblica. Si conversava negli intervalli e sempre ne riportavo un’eco di quella “bontà pronta e paziente”, di quell’“umile sorpresa e gratitudine”, quell’“umile coraggio”, quella “intensissima umile gioia”, quell’“emozione grata”, quello “stupore riconoscente”, quella “sobria allegrezza” e “sobria ebbrezza” che caratterizzavano la sua vita di credente “umilmente felice”, per descriverla con le espressioni tipiche – il lettore le troverà tutte in questo volume – con cui don Paolino indicava i sentimenti che dovrebbero caratterizzare la vocazione cristiana.

Tre volte il padre Michele Casali, altro cristiano verace del vivaio bolognese, mi chiamò – negli anni – ai martedì di San Domenico e tre volte don Paolino venne a sentirmi e trovò modo di mandarmi in confusione dicendomi che era venuto per me.

L’ultima volta fu il 21 ottobre 2003 e c’era a tema il 25° del Papa. “Sei matto a perdere il tuo tempo per venirmi a sentire”, gli dicevo e lui: “Aspettavo di ascoltare quella tua considerazione sulla purificazione della memoria e sono contento che tu l’abbia svolta. Sono anch’io del parere che la richiesta di perdono sia il gesto più evangelico di questo Papa”. Don Paolino era fatto così: uomo raro e santo, libero e persino sregolato, lo conoscevi se lo incontravi ed egli stesso ti parlava e ti aiutava – e molto – solo occasionalmente, se gli capitavi a tiro.

Anche il capolavoro che ci ha lasciato, la Lettera al giornale bolognese Piazza grande, del maggio 1996, qui riportata, è un frutto casuale del suo mite genio della carità e della parola. I commercianti di via Castiglione – la sua via, che lo vede passare più volte al giorno, piegato a portare il peso di un borsone pieno di libri e circondato dai suoi poveri – protestano perché la sua carità attira barboni e vagabondi. Ed egli spiega e quasi chiede perdono, ma anche rivendica la ragione evangelica del suo comportamento e la propone a tutti, con incredibile umiltà, ma anche con piena consapevolezza e decisione: “Non voglio farmi illusioni, non posso presumere niente, posso e devo sperare in una bontà più grande che mi precede e, se sono docile, mi sostiene”.

E’ un grande testo, quella lettera! Una parabola efficace dell’avventura del santo nella città secolare. Una lectio fattuale della carità che “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Corinti 13, 7). Con quella lettera don Paolino scusa i suoi amici barboni, scusa chi li accusa e scusa se stesso che li scusa!

Altro testo straordinario è la Lettera a Giancarla Matteuzzi dopo l’arresto cardiaco dell’aprile del 1998. Un’altra lectio vissuta dell’umiltà creaturale che don Paolino ha sempre incarnato e della benevolenza che ha praticato e di cui è stato circondato. “Mi sono ritrovato così largamente e affettuosamente benvoluto” scrive, e pare che lo scopra solo ora che gli è capitato di affacciarsi “sulla soglia dell’uscita dalla scena di questo mondo”. “E così molte persone mi hanno voluto bene”, ripete come incredulo.

Bellissimo è l’elenco che in quella lettera egli abbozza – si direbbe con scrupolo di professore – delle ragioni di tanta benevolenza e tra esse si azzarda a metterne, timoroso, una più importante delle altre: “Forse, vorrei poter sperare senza presunzione (che mi abbiano voluto bene) anche per qualche riflesso e ombra della parola della misericordia”.

Eccolo qua il don Paolino che ha incantato tanti e quasi tutti quelli che l’abbiamo conosciuto: viveva all’ombra della “parola della misericordia” e un riflesso di essa lo segnalava al nostro cuore.

Anche questa lettera è grande: ci coinvolge in quella sua prodigiosa umiltà di vita, così che noi, felici d’averlo amato, “senza presumere niente” – com’egli avrebbe detto – possiamo custodire nel nostro cuore “l’intenso e quieto e commosso e grato ricordo” – sono ancora sue parole, dette per la mamma – di una qualche frase e sempre dello sguardo che da lui ci sono venuti.

Mite e umile di cuore, esile, curvo e lento don Paolino – se voglio trovargli un’icona evangelica – mi appare come il “puledro sul quale nessuno è mai salito” (Luca 19, 30), che ottiene in sorte di portare Gesù il giorno delle palme. Stupito della sorte che gli è data, egli cammina come può in mezzo alla ressa e quasi non guarda intorno, ma di tanto in tanto leva il capo verso il suo Signore, mitemente felice che mai nessuno – tranne la Parola e i poveri che essa ci affida – si sia servito di lui.

Luigi Accattoli


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