UNA PAROLA STRAORDINARIAMENTE AMICA

Testo a cura di Alessandra Deoriti e Giancarla Matteuzzi

Casa Editrice Dehoniana Libri, Bologna, 2009

La Parola e il mistero della sofferenza

Conferenza tenuta ai membri dell’Associazione Volontari Ospedalieri (AVO) di Scandiano (RE) il 18 aprile 1997.

Il testo è tratto da registrazione, a cura di Antonio Mammi. Ove non espressamente indicate da don Paolo, sono state inserite le fonti dei passi - biblici e non - citati da lui durante la conversazione.

Per i testi biblici, la traduzione è quella della Nuova Riveduta, che don Paolo aveva con sé e ha letto quella sera.

 

Grazie per l’invito. Sono un po’ colpito dalla presenza di tante persone che spero di non deludere, non tanto nel senso di fare una figura più o meno bella, ma perché l’argomento è di notevole importanza, delicatezza, intensità e profondità.

Ho per le mani sempre la Scrittura tutta, il Nuovo Testamento in particolare, anche perché su questo facciamo un po’ di scuola, ma molto di più perché la trovo una parola così straordinariamente amica.

Si tratta questa sera di proporre qualche motivazione, qualche eco, qualche riflessione su sofferenza e dolore davanti alla parola della Scrittura. Quello che potrò dire io - in questa luce - sono comunque poche parole: la sottolineatura di qualche immagine, di qualche evento, una assai circoscritta esplorazione di qualche pagina o di qualche versetto.

Nel vangelo di Matteo si legge:

Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno, guarendo ogni malattia e ogni infermità tra il popolo. La sua fama si sparse per tutta la Siria; gli recarono tutti i malati colpiti da varie infermità e da vari dolori, indemoniati, epilettici, paralitici; ed egli li guarì. Grandi folle lo seguirono dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano (Mt 4, 23-25).

Poco più avanti si legge: “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità” (Mt 9, 35).

Matteo ama queste sintesi: le parole che abbiamo ascoltato e letto ora sono infatti quasi uguali rispetto a quelle di prima.

E poi:

Vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è grande, ma pochi sono gli operai. Pregate dunque il padrone della messe che mandi degli operai nella sua messe».

Poi, chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire qualunque malattia e qualunque infermità (Mt 9, 36-38; 10, 1).

C’è questa specie di formula che ritorna.

Dice che insegnava nelle sinagoghe, annunciava il vangelo del regno, guariva ogni infermità e ogni malattia, ogni debolezza, ogni fiacchezza; questo nella Galilea, nella Siria, nella Decapoli, a Gerusalemme, dalla Giudea, da oltre il Giordano: in altre parole, da Israele, dove Gesù è sempre vissuto, è arrivato appena appena ai confini, appena fuori qualche volta, ma non ha girato molto.

Molteplici malattie, affezioni tormentose, paralisi corporee e psichiche, mali oscuri di marca demoniaca, così sono presentati: un affollarsi interminabile di infermità, una sofferenza che può fare ammutolire.

Nel vangelo di Marco viene presentato proprio il caso dello sconvolgimento dissestato e angoscioso di un giovane spossessato della sua personalità.

Uno della folla gli rispose: «Maestro, ho condotto da te mio figlio che ha uno spirito muto; e, quando si impadronisce di lui, dovunque sia, lo fa cadere a terra; egli schiuma, stride i denti e rimane rigido. Ho detto ai tuoi discepoli che lo scacciassero, ma non hanno potuto». Gesù disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando vi sopporterò? Portatelo qui da me». Glielo condussero; e come vide Gesù, subito lo spirito cominciò a contorcere il ragazzo con le convulsioni; e, caduto a terra, si rotolava schiumando. Gesù domandò al padre: «Da quanto tempo gli avviene questo?».

Egli disse: «Dalla sua infanzia» (Mc 9, 17-21).

E poi addirittura la morte, la morte fisica di una bambina (Mc 5, 35-43); poi quella di un giovane, figlio unico di una madre vedova (Lc 7, 11-17).

La reazione primaria di Gesù è la compassione, una parola che per noi - nell’uso italiano - può essere un po’ pericolosa, così come anche misericordia: queste sono parole preziosissime della Bibbia, che però, nell’uso corrente, possono suonare non così significative come invece sono in realtà.

La compassione non è certo l’atteggiamento di chi un po’ dall’alto in basso si dimostra buono, per così dire. È invece questo percepire, direi in modo viscerale (il termine che è adoperato nel greco biblico e anche nell’ebraico fa pensare a qualcosa che è viscerale), una compassione per gli infermi, per gli affamati Bisogna provvedere a dar loro da mangiare “affinché non vengano meno per via” (Mt 15, 32): il testo farebbe venir voglia di dire “in strada”: sapete perché? Perché quanta gente è in strada adesso e quanti ne muoiono in strada! Anche a Bologna è successo di recente. Compassione per la morte e il dolore che arreca: il Vangelo è primariamente questa divina volontà di sanare e di pacificare.

Nel vangelo secondo Luca questo è proprio enunciato programmaticamente, quando Gesù così comincia la sua attività, come si usa dire, “pubblica”.

Si recò a Nazareth, dov’era stato allevato e, com’era solito, entrò in giorno di sabato nella sinagoga. Alzatosi per leggere, gli fu dato il libro del profeta Isaia. Aperto il libro, trovò quel passo dov’era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato ad annunziare la liberazione ai prigionieri, e ai ciechi il ricupero della vista; a rimettere in libertà gli oppressi, e a proclamare l’anno accettevole [gradito, di grazia] del Signore» (Lc 4, 16-19).

Riprendendo il profeta Isaia, si parla di un progetto antico, che Gesù dice che si attua adesso.

E prosegue:

Poi, chiuso il libro e resolo all’inserviente, si mise a sedere; e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui. Egli prese a dir loro: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi udite» (Lc 4, 20-21).

Gesù indica con questo che la sua attività, il suo essere ad annunciare il vangelo, a proclamare, a portare, a vivere e a realizzare il vangelo è la risposta a quell’attesa.

Dicevo prima che proprio si potrebbe quasi commentare così: il viscerale amore “materno” e paterno del Dio che è padre della misericordia e Dio di ogni consolazione, come lo chiama l’apostolo Paolo (2Cor 1,3). Ho detto “materno” non a caso, perché uno dei termini più importanti che sta ad indicare questa misericordia richiama proprio da vicino il grembo materno.

È l’amore prontamente efficace attualizzato da Gesù che prende per mano il malato, e addirittura la bambina morta, e presto “fa rialzare” questi malati e questi morti: è usato qui il verbo che sarà  impiegato quando si parlerà niente meno che della resurrezione, cioè di una realtà che travalica tanto la nostra esperienza.

Ci può aiutare ulteriormente un altro passo del vangelo di Matteo che parla della guarigione della suocera di Pietro e quindi aggiunge:

Poi, venuta la sera, gli presentarono molti indemoniati; ed egli, con la parola, scacciò gli spiriti e guarì tutti i malati, affinché si adempisse quel che fu detto per bocca del profeta Isaia: «Egli ha preso le nostre infermità e ha portato le nostre malattie» (Mt 8, 16-17).

È una pagina famosa e importante quella di Isaia, in cui si presenta questo servo del Signore che attraverso la sua sofferenza porta salute agli altri.

Qui questa immagine del servo è applicata a Gesù, nel senso che egli porta la malattia in quanto la guarisce; altrove, in altri passi evangelici, in quanto la vive insieme, la vive fino in fondo lui.

Come dirà uno dei primi scrittori cristiani fuori dal Nuovo Testamento, “c’è un solo medico di carne e di spirito” (Ignazio d’Antiochia, Epistola agli Efesini 7), cioè che tocca la realtà umana in ogni suo aspetto: intende Gesù, in quanto quel suo guarire da un lato e dall’altro il suo essere insieme con chi soffre, con chi è oppresso, con chi è maltrattato, con chi è violentato, è la medicina.

Secondo il Vangelo, in fondo è certamente così: la medicina ultima passa di qua .

E poi Gesù manda i suoi discepoli a continuare il suo annuncio, la sua opera di guarigione liberatrice.

Procedendo un po’ velocemente nel nostro discorso, ecco che Pietro potrà dire presto, quando ritrova il coraggio e la fiducia, a quel certo paralitico alla porta del tempio: “Dell’argento e dell’oro io non ne ho; ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (At 3, 6).

Se poi sorgono pensieri, ragionamenti, riflessioni sospettose nei nostri cuori, che ci portano a ritenere che si tratti di cose del passato, troppo rare, oppure di altre situazioni storico-culturali, io spero che vi sia un samaritano qualunque che, trovandoci piagati lungo la via, si prenda cura di noi “facendosi prossimo”, come dice una famosa pagina evangelica: e quel samaritano viene inteso in molti scritti antichi - e in una luce che credo si possa anche esegeticamente riproporre oggi - come Gesù stesso.

E quando non appaiono tracce di guarigione? Quando l’intervallo tra il Venerdì Santo e la Pasqua pare distendersi indefinitamente? Io non so rinunciare al desiderio di una citazione letterariamente famosa, che tutti conoscerete.

Si tratta di alcune delle parole che Ivan Karamazov rivolge al fratello Alioscia (Alëša), intensamente credente. Ivan trova intollerabile che, in vista di una qualche armonia escatologica universale, qualcuno possa trovarsi a dover soffrire nel presente, soprattutto quando si tratta di un incolpevole, di un bambino.

Vi propongo qualche riga.

Non voglio l’armonia: per amore stesso dell’umanità, non la voglio. Voglio che si rimanga, piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato d’invendicata sofferenza e d’implacato scontento, dovessi pure non essere nel giusto. Troppo caro, in conclusione, hanno valutato l’armonia: non è davvero per le tasche nostre, pagar tanto d’ingresso. Quindi, il mio biglietto d’ingresso, io m’affretto a restituirlo. E se appena appena sono un uomo onesto, ho l’obbligo di restituirlo il più presto possibile. E così faccio appunto. Non è che non accetti Dio, Alëša: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto.

- Questo si chiama ribellione - piano, cogli occhi bassi, esclamò Alëša.

- Ribellione? Non avrei voluto sentir da te una parola simile, - in tono penetrante disse Ivan. - Non si può mica vivere in stato di ribellione, e invece io voglio vivere. Di’ tu sinceramente, sei tu che chiamo in causa, rispondimi: supponi che fossi tu stesso a innalzar l’edificio del destino umano, con la meta suprema di render felici gli uomini, di dar loro, alla fine, la pace e la tranquillità: ma, per conseguire questo, si presentasse come necessario e inevitabile far soffrire per lo meno una sola minuscola creatura, per esempio proprio quella bambinetta che si batteva col piccolo pugno sul petto, e sulle sue invendicate povere lacrime fondare codesto edificio: consentiresti tu a esserne l’architetto a queste condizioni? Parla senza mentire. –

-No, non consentirei, - disse piano Alëša[2]

Con una logica all’apparenza insieme quieta e amara, un altro autore, il vecchio Epicuro, elencava alternative che sembrano senza via d’uscita.

Dio o vuole togliere i mali e non può; o può e non vuole; o non vuole e non può; o vuole e può; se vuole e non può, è debole e questo a Dio non s’addice; se può e non vuole è invidioso, e anche questo è egualmente sconveniente per Dio; se non vuole e non può, è invidioso e debole, perciò non è neanche Dio; se vuole e può, l’unica cosa che a Dio convenga, da dove vengono dunque i mali e perché non li tira via?[3]

Con un appassionato attaccamento a Dio, che è messo però a prova ben dura volendo essere onestamente lucido, Giobbe in un passo arriva a dichiarare: “Nella città gemono i moribondi, chiedono aiuto i feriti, ma Dio non fa caso alla loro supplica” (Gb 24, 12).

Ora, che Dio stia attento agli oppressi e ascolti gli innocenti perseguitati era al tempo, nel mondo biblico, una convinzione generale. Giobbe si oppone ad essa e non soltanto per quanto riguarda il suo caso, ma come un fatto proprio più generale. Ricordiamo che Giobbe, oramai al termine della sua via dolorosa, dirà davanti al Signore: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42, 5): ha cambiato parere, arriva a dire che Dio ha ragione. Ma non a tutti è dato di trovare una risposta abbastanza riconoscibile a quel grido, perché proprio di un grido si tratta.

Dice il Salmo 88 (87): ”Signore, Dio della mia salvezza, davanti a te grido giorno e notte. Giunga fino a te la mia preghiera, tendi l’orecchio al mio lamento (vv. 2-3); e così termina: “Hai allontanato da me amici e conoscenti, mi sono compagne solo le tenebre (v.19).

E poco prima dice: “Sono infelice e morente dall’infanzia, sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori (v.

16).

Espongo un’altra lettura antica, per una ragione che dirò tra un momento. Il salmo dice: sì, da una parte sono povero e turbato fin dalla giovinezza e da una parte sono stato esaltato, ma poi sono stato umiliato e portato verso la disperazione.

Si può capire, e può risultare persino invitante, la proposta che pochi anni fa (1989) ha fatto Hans Jonas, un filosofo ebreo, studioso anche del fenomeno gnostico più che delle origini cristiane.

Dice Jonas:

Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di comprenderla). Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male. E poiché abbiamo concluso che il concetto di onnipotenza è in ogni caso un concetto in sé problematico, questo è l’attributo divino che deve venire abbandonato[4].

Per chi ha avuto il dono di ascoltare il vangelo, il lamento non rimane senza un inizio di risposta, in quanto - direi soprattutto - è iniziato uno sguardo, la possibilità di un certo sguardo che si riassume nella parola che si trova nel vangelo di Giovanni, quando commenta la morte di Gesù citando un passo profetico che suona: “Guarderanno a colui che hanno trafitto” (Gv 19, 37; Zc 12, 10).

Il Salmo 88 - di cui abbiamo detto un poco prima - è percorso da un lamento senza risposta. Sì, si invoca “Dio della mia salvezza” e si finisce con le “tenebre”.

Io credo sia importante anche per un cristiano tenere presente questo grido, questa realtà non risolta.

Nel tempo presente, anche il cristiano vive anzitutto la debolezza della croce. È necessario sempre un silenzio per chi frequenta la Scrittura, anche e specialmente dove c’è il lamento: diventa un silenzio che resiste aspettando la salvezza del Signore. C’è un passo delle Lamentazioni che dice proprio così: “Buona cosa è aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (Lam 3, 26). Ma forse non a tutti, e non sempre, è dato.

E anche qui forse vale l’espressione del Qoèlet (Ecclesiaste) che dice: “C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Qo 3, 7b).

Forse non si può sempre tentare di affrettarsi a portare parole chiarificatrici e consolatorie:

Ma chi può dire con l’apostolo Paolo (2Cor 4, 13) e già col salmo (Sal 116, 10) “Ho creduto, perciò ho parlato” (e quindi la parola ricomincia), chi può dire questo ritroverà abbastanza presto la parola che attinge alla consolazione di Dio. Potrà così ripensare questo Salmo 88 e quel versetto 16 in cui, nel modo che sfiora proprio la disperazione, si dice: “Sono infelice e morente dall’infanzia, sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori”. Si potrà allora ripensare quel salmo, quell’espressione, e non solo quella, rileggendolo con Paolo, che riprende esattamente una parola sintomatica del versetto di tale salmo:

Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all’estremo; perplessi, ma non disperati [potrebbe anche intendere: “senza sapere che cosa sperare, senza via d’uscita, però non fino in fondo”]; perseguitati ma non abbandonati; atterrati ma non uccisi: portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo (2Cor 4, 8-10).

E per dire “morte” usa poi un parola (nèkrosis) che sta ad indicare questo morire che è avvenuto sì una volta per tutte in Gesù storicamente, ma che poi continua a esprimersi nella concretezza dell’esperienza del credente.

E le parole conclusive del Salmo 88 si possono meglio capire - in una intenzionalità che va oltre il senso letterale - ricordando Gesù in croce e nelle tenebre: “Hai allontanato da me amici e conoscenti, mi sono compagne solo le tenebre” (v. 19): è Gesù in croce e nella tomba.

Io ripenso al grido, al lamento, non per farne una storia: vi sono diversi passi - ne ho notati alcuni -che forse ci possono aiutare a trovare una specie di traccia, di filo conduttore.

Prima leggevamo - a proposito del grido del Salmo 88 - che solitamente ci si aspetta che Dio risponda. Infatti una delle prime volte, credo la prima che questo compare nella Bibbia, è a proposito della storia del popolo di Israele in Egitto, dove si legge:

Durante quel tempo, che fu lungo, il re d’Egitto morì. I figli d’Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abramo, con Isacco e con Giacobbe. Dio vide i figli d’Israele e ne ebbe compassione (Es 2, 23-25).

E poco più avanti troviamo:

Il Signore disse: “Ho visto, ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni” (Es 3, 7)

e da lì poi la missione affidata a Mosè.

A me fa pensare che i rimedi di Dio spesso sono poveri. Mosè si prese paura a sentirsi dire queste cose e disse al Signore: “Ahimè, Signore, io non sono un oratore; non lo ero in passato e non lo sono da quando tu hai parlato al tuo servo; poiché io sono lento di parola e di lingua” (Es 4, 10).

I rimedi di Dio, così come la Scrittura li presenta, hanno questa particolarità e singolarità: di sembrar partire da così poco e poi rivelarsi invece durevoli, resistenti, direi efficaci con una mitezza che sorpassa ogni previsione, una mitezza decisiva, con un’efficacia paziente e operante: non a caso Gesù ha fatto i paragoni della parabola del seme, del lievito, delle piccole cose che sanno produrre risultati veri.

Abbiamo ricordato prima Giobbe e il Salmo 88. Adesso facciamo un balzo in avanti e andiamo al vangelo di Marco.

In un racconto dei più drammatici che egli presenti, compare un malato - diremmo noi – “mentale” grave; qui parla di un indemoniato, ma c’è l’una e l’altra cosa. Quanto si può dire? Non pretendiamo di sistemare in due parole una storia e delle motivazioni complesse. Di questo tale viene detto così:

Di continuo, notte e giorno, andava tra i sepolcri e su per i monti, urlando e percotendosi con delle pietre. Quando vide Gesù da lontano, corse, gli si prostrò davanti e a gran voce disse: «Che c’è fra me e te, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Io ti scongiuro, in nome di Dio, di non tormentarmi» (Mc, 5, 5-7)

Gesù interviene con quella singolare potenza che gli viene dall’amore del Padre e quindi: “Vennero da Gesù e videro l'indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che aveva avuto la legione; e s’impaurirono (Mc 5, 15).

Ma allo stesso modo in cui ci fu un grido follemente incontenibile come questo, io penso a un altro grido, il cui soggetto è Gesù stesso: “All’ora nona, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì lamà sabactàni?» che, tradotto, vuol dire: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»” (Mc 15, 34). E pochissimo oltre: “Gesù, emesso un gran grido, rese lo spirito” (Mc 15, 37).

Credo che la storia di questo grido, di questo lamento che passa attraverso tappe successive, ci permetta di cogliere un filo.

Vediamo un attimo ancora. Nello stesso vangelo di Marco c’è un episodio raccontato solo da questo evangelista, quello di un sordomuto che Gesù guarì: “Poi, alzando gli occhi al cielo, sospirò [quasi gemette]e gli disse: «Effatà!» che vuol dire: «Apriti!»” (Mc 7, 34); questo gemito viene emesso da Gesù a contatto con un mutismo che sarebbe di per sé insanabile (però lo guarisce), ma è proprio perché entra nella condizione concreta di quell’uomo che c’è questo gemito, un gemito che traduce una realtà che non ha bisogno o possibilità di molti altri commenti.

L’apostolo Paolo nella lettera ai Romani interpreta la storia umana, ricapitolata e riproposta nella forza e con la grazia dello Spirito in cui lui crede, che è lo Spirito di Dio e lo Spirito di Gesù, e la ripropone in questi termini: “Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio” (Rm 8, 22); Paolo usa qui un’espressione che fa pensare che si tratti di un gemito collegato non a una conclusione amara e definitiva, ma al parto, a una generazione.

E prosegue: “Non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello spirito [cioè noi che abbiamo cominciato a credere], gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23). E poco oltre:

Allo stesso modo ancora, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché non sappiamo pregare come si conviene; ma lo Spirito intercede egli stesso per noi con sospiri ineffabili. (Rm 8, 26);

intercede con gemiti inesprimibili, che traducono al di là di quello che noi sappiamo ben coordinare coi nostri discorsi e i nostri pensieri, che vanno più a fondo nell’interpretare questo gemito che percorre la creazione tutta, l’umanità in particolare e l’umanità credente.

Ma tutti ricordiamo la lettera agli Ebrei in cui si dice:

Nei giorni della sua carne [cioè della sua vita storica], con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte ed è stato esaudito per la sua pietà. Benché fosse Figlio, imparò l'ubbidienza dalle cose che soffrì; e, reso perfetto, divenne per tutti quelli che gli ubbidiscono, autore di salvezza eterna” (Ebr 5, 7-9).

“Imparò l’ubbidienza”: imparò cioè questa conformazione totale al progetto di Dio, che evidentemente è un progetto che si piega al grido, al gemito della storia, dell’umanità, della malattia, dell’oppressione subita.

Lo stesso autore della lettera agli Ebrei poco più avanti compendia l’atteggiamento del credente dicendo: “teniamo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Ebr 12, 2); colui che crea la fede e la rende perfetta è lo stesso Gesù che con alte grida e lacrime imparò l’obbedienza.

Proprio oggi, nella liturgia, si leggeva il passo degli Atti degli Apostoli dove si narra della conversione di Paolo e della voce di Dio che si rivolge ad Anania e gli dice: “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9, 16).

Questa sofferenza che è detta del Cristo, che è detta dei cristiani, non è certo la sofferenza come un fine, ma è la sofferenza come necessità concreta all’interno delle pieghe dure, faticose, dolorose e gravose della storia. È la sofferenza come un partecipare, come un condividere creativo, come un non sapere restare da soli quando un altro è nella stretta, nell’angoscia, nella fame, nel dolore: e questo - secondo tutta la Scrittura e in particolare secondo il Nuovo Testamento - è l’atteggiamento di Dio stesso.

Il Dio di cui si parla nel Nuovo Testamento non è uno che dall’alto dispone e dà regole e poi ognuno pensa ai fatti suoi; la fede cristiana non si rivolge a un Dio che sta a guardare dall’alto, che dice di amare l’uomo, ma a un Dio che partecipa a tutto ciò che è e che fa l’uomo, compresa la sua sofferenza.

Il cristiano non ha il compito di difendere un Dio lontano, incomprensibile nel suo operato. Al contrario, egli sa che nella passione di Cristo è visibile la solidarietà di Dio con chi soffre: e quindi il cristiano - in quanto cerca, spera, crede o chiede di credere - si sente coinvolto, è messo in questa direzione e per questa via ritrova e ricompone un senso di speranza anche laddove, dai dati di fatto più immediati, è difficile averla.

Resistenza e resa è il titolo di un libro di Dietrich Bonhoeffer, teologo evangelico tedesco fortemente in contrasto col nazismo, carcerato per oltre due anni e impiccato a Flossenbürg il 9 aprile 1945, pochi giorni prima della fine della guerra[5].

Si tratta di un titolo che nella seconda parte può dare adito a qualche esitazione, a qualche momentanea perplessità.

Resistenza traduce un termine biblico neotestamentario: la resistenza anche sotto i colpi, la resistenza nella propria e nell’altrui sofferenza, la resistenza di fronte e dentro le contraddizioni, davanti e in mezzo a ciò che ci pare incurabile; la resistenza che io credo - non so fare una teoria generale, ma lo dico per quel poco che riesco a capire - si consegua per un cristiano ritrovando intanto la Parola, una Parola che poi diventa un segno; e poi nella concretezza, nella vita cristiana credente, è la memoria di Dio intimamente concentrata in Gesù innalzato.

“Guarderanno a colui che hanno trafitto” (Gv 19, 37), abbiamo ricordato prima: è il trafitto che insieme viene innalzato.

In un altro passo del vangelo di Giovanni Gesù dice: “Io, quando sarò innalzato dalla terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32). È un’attrattiva invincibile. Quando sarò innalzato da terra: come? Innanzitutto in croce, che era un essere innalzato ben poco e ben malamente: ma l’evangelista lo presenta come il primo e fondamentale aspetto in cui si mostra, si fa vedere innalzato e quindi visibile; ed è innalzato nella gloria certamente, ma per Giovanni già l’essere in croce è il segno della gloria di Dio, dell’amore che risulta più forte di tutto il resto. Ha infatti introdotto il racconto pasquale dicendo: “Gesù, sapendo che era venuta per lui l’ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1); si traduce “fino alla fine”, o “fino all’ultimo segno”, “fino al termine definitivo”: e quel termine definitivo è nell’icona di Gesù innalzato, che innanzitutto è Gesù crocifisso, non c’è dubbio.

Ed ecco allora la beatitudine di chi, conoscendo o cominciando a conoscere il Vangelo, ha cominciato a credere e a intendere la forza decisiva di un amore fedele, di questa verità misericordiosa che è il Dio vivente. La parola che dice questo, i gesti, gli atteggiamenti e lo stile di vita che nasce da questo, risultano parte essenziale di questa volontà curativa, medicinale, tendenzialmente pacificante, che è il progetto di Dio.

È un progetto che da tante parti - nella concretezza della nostra esperienza storica - rimane sospeso, incompiuto, ma c’è dentro una promessa.

E questo progetto è, sia pur frammentariamente ancora realizzato da chi lo può cogliere, da chi magari esplicitamente non ha fatto un atto di fede vero e proprio, ma coglie qualche raggio, qualche indizio, qualche suggerimento da questa luce, (secondo il Prologo del Vangelo di Giovanni il Verbo di Dio che è Cristo è insieme la luce che illumina ogni uomo - e chissà in quanti modi uno è illuminato! - e in particolar modo quella luce che rende capaci di tentare di voler bene), questo progetto - dicevo - è la medicina fondamentalissima, lo credo proprio.

Se io allora - in quanto ho o cerco di avere un po’ di fede e spero di averne di più ancora e di farne esperienza progressiva - riesco a credere che la parola definitiva è questo amore fedele, è questa verità misericordiosa, è questa “resistenza nonostante tutto”, ciò fa parte del progetto di guarigione per il quale Gesù si è manifestato, ha annunciato il vangelo, ha mandato i suoi.

Tornando al titolo Resistenza e resa, non si intende dire l’arrendersi e il titolo, nell’originale, fa capire meglio di che cosa si tratta: è il consegnarsi, il consegnarsi “affidandosi nelle tue mani” come dice il Salmo (Sal 31, 6) e dice Gesù in croce nel Vangelo di Luca (Lc 23, 46).

È il consegnarsi che potrà, che dovrà essere l’ultimo atto, l’ultimo gesto, l’ultima parola detta, l’ultimo affidamento; ma è anche il consegnarsi quotidiano nella nostra debolezza, nella nostra fatica, nella nostra incompiutezza, nella nostra stanchezza.

Ma - per ricordare ancora una parola dell’apostolo Paolo - “questa fatica non è vana” (1Cor 15, 58), non è a vuoto, non è la vanità di cui parla tanto l’Ecclesiaste e di cui si legge in tante parti della Bibbia, qualcosa che poi in fondo non tiene, che non resiste.

Questo tipo di fatica (lo diciamo senza ombra d’orgoglio, con stupore soprattutto), questo persistere, questo insistere, questo non desistere, questo ricominciare, non è a vuoto: noi non sappiamo vederne tanto i risultati molte volte, però c’è dentro e porta con sé la promessa che non è a vuoto.

La resistenza da un lato e insieme questo consegnarsi fanno certamente parte di un atto di fede e di fiducia, ma soprattutto in questa ultima parte del mio discorso tutto è motivato in fondo da questa fiducia: questo consegnarsi è infatti caratteristico proprio di chi ha cominciato davvero a fidarsi di qualcuno.

Permettetemi di terminare ricordando alcune parole di un discorso di Giuseppe Dossetti, parole che riguardano proprio il centro della vita e della vita cristiana, dell’amore primo e supremo, toccando l’economia sacramentale (forse anche questa sera, in riferimento alla malattia, si poteva dire qualcosa sull’umile dolcezza dell’Unzione degli infermi), ma parla soprattutto dell’Eucaristia.

E dice qualcosa che suggerisce uno stile che non è semplicemente acquisito perché uno si dà da fare (soprattutto nella prospettiva in cui lui lo pone), una grazia scoperta, un dono che si fa strada: ma è anche un consenso, un desiderio nostro.

Dice dunque Giuseppe Dossetti:

… La carità eucaristica va vissuta anzitutto per se stessa (non ancora per le molte opere buone che essa deve e può fruttificare). La stessa opera buona eccellente, cioè dare la vita - e che in certe circostanze può essere persino un dovere - ammette un grado più alto che è l’amore puro di Dio (cfr. 1Cor 13, 3). Perciò i martiri hanno sempre voluto circondare il loro sacrificio di pudore e di umiltà (cfr. Martirio di Policarpo, IV) … L’altissima risposta d’amore all’Amore trinitario sarà tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto meno si preoccuperà e saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si perderà, quanto più sarà silenziosa e radicale follia, dimessa e impotente: allora raggiungerà quel grado di sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa inoffensività che può pervadere gli spiriti degli altri uomini (cfr. Sap 7, 22-24) senza che se ne accorgano, riempirà la città stessa come «un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente» (Sap 7, 25); [Don Dossetti cita, adattandolo al contesto suo, un passo singolarmente intenso e bello del libro della Sapienza, laddove si parla dello spirito, delle sue caratteristiche, preludendo al discorso neotestamentario dello Spirito Santo].

Allora la Chiesa (e il cristiano in essa) senza apparirlo, sarà realmente in Cristo e nello Spirito Santo, mediatrice fra Dio e il mondo, coglierà i gemiti della creazione «nelle doglie del parto» (Rm 8, 22), tratterrà il mysterium iniquitatis impedendogli di portare a termine la sua opera distruttiva, e garantirà la consistenza del mondo fino all’avvento del Regno”. [“Tratterà”, cioè riuscirà a bloccare quel mistero dell’iniquità che c’è nella storia umana, la sua opera distruttiva, la violenza][6].

Sono cose così grandi! Noi facciamo cose modeste. Anzi, credo che dobbiamo essere modesti.

Però io credo che sia importante il fatto di potersi aiutare insieme a riscoprire, partendo - per quanto possibile e per quanto a ciascuno è dato - da motivazioni come queste o in qualche modo imparentate a queste in quanto a ciascuno è dato, in quanto insieme ci si aiuta a capire il senso della parola amica e del gesto d’affetto e ci si aiuta insieme a resistere e anche ad affidarsi: affidarsi intanto l’uno all’altro in certa misura, come umanamente è possibile, e, per quanto è possibile, a Colui che è infinitamente affidabile.

Quando questo può avvenire, senza ombra di vanteria, io credo che si debba ringraziare.

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[1] da “UNA PAROLA STRAORDINARIAMENTE AMICA”, a cura di Alessandra Deoriti e Giancarla Matteuzzi,Casa Editrice Dehoniana Libri, Bologna, 2009.

[2] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1993, parte II, libro V, cap. IV trad. di Agostino Villa, pp. 328-329.

[3] Frammento 374, ed. Hermann Usener, in Epicurea, Bompiani, Milano, 2007.

[4] H.Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 1997, p. 34.

[5] v. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa (tit.orig. Widerstand und Ergebung), San Paolo, Cinisello Balsamo, 1988.

[6] G. Dossetti, Per la vita della città. L’Eucaristia e la città, in G. Dossetti, La parola e il silenzio. Discorsi e scritti 1986-1995, a cura della Piccola Famiglia dell’Annunziata, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 184-185.


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