1998 - Lettera a Giancarla Matteuzzi
Nell’aprile del 1998 Don Paolo ebbe un improvviso arresto cardiaco durante un incontro universitario. Si salvò per la casuale presenza di un medico.
La lettera, datata 13 maggio 1998 fu scritta poco dopo, da Iolo (Prato) dove don Paolo si trovava in convalescenza.
Carissima Giancarla,
mi è ritornato in mente parecchie volte quel che mi hai scritto quando ero in ospedale: «quanti sentimenti ha messo in moto la… malattia».
Personalmente, potei cominciare a percepire qualcosa in serata (di giovedì 2 aprile); quando la cosa cominciò, persi coscienza per tre volte, le prime due brevemente («che strana cosa mi succede»: la prima volta dissi qualcosa di simile; poi mi risvegliai sdraiato a terra, uno mi teneva il polso – era un medico presente al convegno perché si interessa di lingua ebraica, si chiama Cattani ed è parente di don Giovanni e don Silvano -, credo che il suo intervento, in attesa dell’ambulanza, sia stato molto importante, perché il cuore tendeva a fermarsi; ho ricordi frammentari: fatica a respirare, arrivo degli addetti all’ambulanza – credo medici – parole dette da me a signore presenti, di occuparsi della mia borsa e del mio impermeabile!); la terza volta dormii a lungo, per cui non ho memoria del trasporto in ambulanza (con applicazione di elettrodi) e delle cure al Pronto Soccorso (con uso di trombolitico); ho qualche ombra di immagini di persone, fino a quando ho ripreso coscienza continuativamente, ed ero già in un letto della terapia intensiva cardiologia: ricordo di avere risposto, credo abbastanza lucidamente, a domande dei medici, ricordo che – non so se prima o dopo, comunque poco oltre le 19 – venne il parroco don Alfredo e, presenti mia cugina Maria e Antonio Cacciari, mi diede l’unzione degli infermi: so che ne fui contento e un poco mi commossi, ma non mi sembra di aver avvertito allora la preoccupazione della possibile prossimità di morire; ho presente che chiesi ad Antonio «dove siamo?»; e certo percepivo che stavo vivendo una… vicenda seria e importante; parlavo con una certa fatica, in quanto le corde vocali dovevano aver sofferto per il respiratore che mi avevano messo; a un certo momento, era ormai notte, mi accorsi più chiaramente che avevo un po’ di sangue in gola e in bocca e che mi mancavano dei denti davanti; non so poi se se mi era stata somministrata qualche medicina per favorire l’assopimento e la quiete; ma ormai era cominciato il ricupero, anche se rimase, credo per 48 ore, la riserva della prognosi. Devo anche aver cominciato presto ad avere un sentimento diffuso di stupore riconoscente, confermato ed accresciuto col rendermi conto di questo o quel particolare della “dinamica” di tutto l’”incidente”; credo di poter dire che, anche solo avendo a disposizione una modesta antenna, era difficile non cogliere un messaggio.
Le parole che hai scritte riflettono una constatazione per me preziosa e che tocca ragioni vitali profonde: mi sono ritrovato così largamente e affettuosamente “benvoluto”, nel giorno in cui si è avvertito all’improvviso che potevo essere sulla soglia dell’uscita dalla scena di questo mondo.
C’è un ordine di considerazioni che successivamente mi si è riproposto più volte e che ha che fare anzitutto con l’”esprit de géometrie”, in una forma meccanicistica, casualistica, se si può dire così: come si può determinare una stenosi coronarica, come si può formare un trombo (che dev’esser una cosa piccolissima, però, a un determinato momento, non riesce a “passare”), come questo può succedere quando uno è, da solo, sdraiato sul suo letto (e ho pensato ad Andrea Brunetti) oppure mentre è per strada e pochissimi giorni dopo il mio malore, in ospedale lessi sul giornale di una donna crollata a terra, non mi ricordo in che via, trovata già morta quando arrivò l’ambulanza e rimasta poi a lungo là, coperta da un telo), oppure ancora a uno capita di star male davanti a molte persone, e fra queste c’è anche un medico per il primo soccorso.
La “natura” – e, in essa, la storia – nelle coordinate inevitabili di “caso e necessità”.
Credo che spesso abbiamo sentito ed espresso gratitudine perché ci è venuta incontro e ci ha “toccato il cuore” una parola che non ci ha permesso di restare bloccati da quello “sbarramento”.
Nello scorso gennaio fui indotto a intervenire a una riflessione a più voci che partiva dal “de providentia” di Seneca; un rapporto fiducioso con quella parola che ci è testimoniata nelle Scritture d’Israele e della Chiesa ci permette non, evidentemente, un provvidenzialismo un po’ facile, ma si ha percezione di segmenti e frammenti che diventino indizi non disparati e incoerenti di un bene affidabile, di cui si riscopre salda memoria, decisivo e prezioso ricordo, efficace per generare quieta fiducia oggi, per ravvivare oggi il desiderio che la Parola prima diventi un po’ riconoscibile anche nella nostra personale vicenda, che poi fa parte della storia di una comunità che non si può contare e della storia di quella moltitudine immensa che diciamo “umanità”.
Detto così, soprattutto nelle ultime parole, tutto può sembrare talmente sproporzionato; ma, ormai lo sappiamo, basta riprendere la lampada della Parola e un po’ di strada è riconoscibile e percorribile.
E qualche tratto di strada assieme lo si è fatto, ci si è scambiata qualche confidenza su difficoltà e su attrattive del cammino, a volte si è faticato a volte si è riposato, si è ascoltato, parlato, taciuto, anche sbagliato, anche sofferto, non di rado ci si è data una mano, si è cercato di non smettere di sperare…
Così molte persone mi hanno voluto bene: anche, è pensabile, come sempre accade, per qualche tratto più personale, forse per qualche stranezza, o per un momento di attenzione, e nonostante certi vuoti e silenzi e soprattutto penosi ritardi; forse, vorrei poter sperare senza presunzione, anche per qualche riflesso e ombra della parola della misericordia, di questa materna viscerale volontà di vita, di salvezza, di accettazione e convivenza amante, di compassione e – diciamolo anche se il termine si sta logorando con l’uso – di tenerezza: una traccia, almeno un’eco di quella “malattia d’amore” che è suprema speranza; forse, qualche volta, qualcosa che ho potuto dire, che ho potuto fare, ha fatto ricordare questa commozione che segna la vita; forse, anche proprio in segno di debolezza, ne ho lasciato intravedere il bisogno…
Resta che per me oggi risulta quietamente urgente una vita semplice, per quel tanto di tempo che potrà essermi dato ancora; questo ha l’aria d’un buon proposito non privo d’ingenuità, ma chiedo seriamente l’aiuto di amiche e amici, che mi ricordino e al momento opportuno mi ammoniscano.
Mi pare di aver scritto più del prevedibile; avevo appena cominciato a Iolo (che è come un sobborgo di Prato, dov’ero ospite di suore domenicane molto amabilmente accoglienti e dove vivevo in modo singolarmente “disimpegnato”), ho continuato a Bologna, almeno per ora, concludo.
Desidero che in quel che ho scritto non ci sia enfasi; è in ogni caso qualcosa che mi preme.
E molte grazie.
d. Paolo
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