UNA PAROLA STRAORDINARIAMENTE AMICA
Testo a cura di Alessandra Deoriti e Giancarla Matteuzzi
Casa Editrice Dehoniana Libri, Bologna, 2009
Prefazione di Antonio Cacciari[1]
Qualche ricordo, a modo di premessa
Atene e Gerusalemme
«Che c’entra Atene con Gerusalemme? che c’entra l’Accademia con la Chiesa?», si chiese una volta Tertulliano[2]. Già, che c’entra? Anch’io me lo domandavo, quando – studente di liceo e appassionato ai classici – sentivo parlare in ambito ecclesiale di Bibbia e teologia in un modo assai difforme rispetto a quello in cui venivo apprendendo gli autori greci e latini. Un giorno capitò che a tenere una lezione ai giovani di Azione Cattolica fosse proprio don Paolo, che a quel tempo io non conoscevo affatto; l’argomento, peraltro assai impegnativo, era «La Chiesa». L’oratore fornì in anticipo una fittissima traccia scritta – che fu riprodotta e data ai presenti come handout –, contenente in pratica tutti i passi biblici utili a illuminare gli aspetti più svariati e controversi della tematica in oggetto, con un rigore metodologico che trovai tanto impressionante quanto inusuale in contesti analoghi. Non c’erano tautologie, vacue perifrasi o petitiones principii, né derive moralistiche, ma esclusiva attenzione a quei testi neotestamentari che sostengono il discorso ecclesiologico; dei quali testi non venivano date a mo’ di spiegazione mere parafrasi o amplificazioni retoriche, bensì una verifica critica puntuale e sistematica, con riferimenti continui all’originale greco e pertinenti citazioni bibliografiche ad illuminare il complesso dibattito esegetico retrostante. Il pubblico era composto per lo più di studenti – delle medie superiori o dell’università – e quindi tutto sommato doveva possedere gli strumenti culturali per seguire, sia pure a grandi linee, lo svolgersi del discorso. Nonostante fossi del tutto conscio della portata delle mie lacune culturali, da un lato mi sentivo fiero di non essere trattato – una volta tanto! – alla stregua di un recipiente da colmare, ma piuttosto come un soggetto intellettualmente autonomo, capace di un pensiero e di una verifica personale anche su problemi di simile ampiezza e profondità; e, dall’altro, avevo capito in che termini – senza fondamentalismi tertullianei – una solida formazione classica possa essere un aiuto non solo utile, ma indispensabile alla spiegazione dei testi biblici. Sono passati quasi quarant’anni da quel giorno, e ne rimango più che mai convinto. Quella occasione, sia detto per inciso, costituì il mio personale ‘rito di iniziazione’ alla Bibbia e alla letteratura cristiana antica.
Le parole e la Parola
La prima impressione di quel giorno lontano doveva trovare conferme ulteriori e più ampie nel corso di una frequentazione ininterrotta, durata più di tre decenni. L’amore di don Paolo per le parole – tratto caratteristico, già nel nome, del ‘filologo’ – non si soffermava a esaminarle come si trattasse di reperti archeologici o di cellule al microscopio: era invece la passione per la più alta prerogativa degli esseri umani, la possibilità di comunicare mediante un linguaggio razionale. Dagli scritti che trovano spazio in questa, come pure nelle precedenti raccolte, emerge un evidente legame tra questo suo interesse di sempre e quello che venne coinvolgendolo con profondità crescente, fino a una dedizione totale, verso la Parola con cui Dio parla agli uomini, la Scrittura: «una parola così straordinariamente amica», come don Paolo la definisce in uno dei testi qui sotto riportati. Il suo stesso lessico – non avrà difficoltà a riconoscerlo chi ha potuto ascoltarlo a lungo nella predicazione e nell’insegnamento – era segnato dal continuo riferimento a contesti biblici, spesso direttamente desunti dalla Vulgata, la versione latina tramite la quale si era accostato per la prima volta al testo sacro, per dedicarvi in seguito anni di studio intenso. Trovano così una spiegazione molti dei termini tanto frequenti anche nelle pagine qui presentate: «cuore dilatato» (cf. ad es. Vulg. Pv 21,4; Is 60,5; 2Cor 6,11), «angustia» (angustia cordis: cf. ad es. 2Cor 2,4; 4,8; 6,4.12; 12,10), «quieto» (cf. ad es. Gr 49,31; 1Ts 4,11; 1Tm 2,2; 1Pt 3,4), «amabile» (cf. Fil 4,8), «sobrio» (cf. ad es. 2Cor 5,13; 1Ts 5,6.8; 2Tm 1,7; Tt 1,8; 2,12), «costante/costanza» (cf. At 23,11); «mite/mitezza» (cf. Mt 5,4 [nelle ‘beatitudini’]; 11,29 [Gesù così si autodefinisce]); «urgente» (cf. 2Cor 5,4); «potente/potenza» (cf. ad es. Lc 1,49.51 [il Magnificat]; Rm 4,21; 9,22; 11,23; 2Cor 9,8; 10,4; 13,3; Ef 1,19; 3,20; 6,10; Col 1,11); «docile/docilità» (1Re 3,9; proprio con ‘docilità’ inoltre, con un’interpretazione alquanto originale, P traduce praùtes di Gc 1,21 nell’intervento incluso in questa raccolta; mentre Vulg. ha mansuetudo, e molte versioni moderne ‘mitezza’). Queste ‘parole preferite’ (Lieblingswörter), che si affacciavano regolarmente nei suoi discorsi, attestano in modo inequivoco il grado di interiorizzazione prodotto in lui dalla lettura e dalla meditazione continua – la ruminatio cara alla tradizione monastica – della Scrittura. Non passerà inosservata la presenza insistente di 2 Corinti, un testo che, si può ben dirlo, ha segnato in modo profondo don Paolo nella sua esperienza di cristiano e di prete: ne sono prova i numerosi contributi, talvolta anche in forma di approfondimento analitico, che negli anni vi ha dedicato.
Buone maniere
Quali sono i motivi che attiravano su don Paolo in tale misura simpatia, benevolenza, affetto da parte di tante persone delle categorie più svariate? La folla che riempiva la Cattedrale, il pomeriggio del suo funerale, era composta da individui d’ogni genere, non solo appartenenti alle fila del clero diocesano e del personale universitario, cosa normale dato il suo status: c’era una tale varietà da far sì che – a differenza di quanto di solito avviene in occasioni come questa, che hanno un risaputo risvolto di ‘riconoscimento’ sociale – a ciascuno capitasse di trovarsi accanto a persone a lui del tutto sconosciute e non facilmente classificabili in base a scontate tipologie. Il fatto è che, al di là del carattere e delle qualità, Paolo era un uomo molto socievole, che sapeva davvero coltivare conoscenze e amicizie e che in questo non lesinava tempo e pazienza. Ciò che in prima istanza impressionava chiunque lo avvicinasse era la sua cortesia, una qualità che già nel nome evoca tempi remoti – oggi, direi, più che mai – ; la si potrebbe definire anche, più semplicemente, ‘buona educazione’, a patto beninteso di escluderne gli aspetti meramente formalistici, propri di un freddo galateo finalizzato a tener distinti gli individui, chiudendoli nei limiti dell’appartenenza a una classe sociale. Nulla di tutto questo: si trattava al contrario di quell’affabilità di modi motivata principalmente dal rispetto per gli altri e dal desiderio costante di avvicinarli mettendoli a proprio agio. Era cresciuto in una famiglia della piccola nobiltà di campagna, figlio unico di genitori già avanti con gli anni, coi quali – oltre che con un’amata zia paterna: tutte persone nate nell’ ‘800 – visse sempre; per questo il suo tratto signorile aveva qualcosa di piacevolmente démodé, senza però esser mai stucchevole né affettato: direi che esso rispecchiava l’interesse e il rispetto autentico per il prossimo, il piacere del dialogo, il gusto amabile per la conversazione.
Fructus autem Spiritus…
Ma non era, ovviamente, solo una questione di ‘buone maniere’: c’era molto d’altro.
Non saprei trovare le parole senza scivolare in qualche forma di encomio, un genere letterario – pure antico e glorioso – che non era certo congeniale a don Paolo, né lo è a me. Mi affiderò pertanto, a questo proposito, a un testo paolino, nel quale vengono elencati i ‘frutti dello Spirito’: «Invece il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, longanimità, bontà, benevolenza, fiducia, mitezza, padronanza di sé; la legge non ha che fare con cose del genere»[3]. ‘Gioia’ (charà): era una persona fondamentalmente allegra, che sapeva «gioire con chi gioisce», oltre che «piangere con chi piange»[4]; amava scherzare, non c’era nei suoi atteggiamenti nulla di triste o di represso; aveva un’ironia lieve, sempre benevola. ‘Pace’ (eirène): un pensiero dominante, quasi un’ossessione, per lui: a partire dai rapporti interpersonali, per ristabilire i quali spendeva tanto del suo tempo, fino agli eventi bellici, comunque infausti e inconcludenti, che hanno insanguinato questi ultimi anni, e che tante volte abbiamo commentato insieme davanti al televisore. ‘Longanimità’ (makrothumìa): una virtù difficile da definire, elogiata tanto dai moralisti classici – Cicerone, Seneca, Montaigne – quanto dagli scritti biblici; il che, si sa, non accade tanto spesso, nell’inevitabile divaricarsi di codici etici discendenti da premesse antropologiche, e soprattutto teologiche, troppo differenti. Ma in questo caso sì: si tratta infatti di un valore troppo prezioso, di una perla troppo rara. In che cosa consista lo si comprende meglio forse proprio da quelli che ne sono gli attributi contrari: ristrettezza di vedute, meschinità, animo angusto, povertà spirituale, incapacità di superare conformismi comportamentali e convenienze sociali. ‘Bontà’ (chrestòtes): una qualità che non avrebbe bisogno di commenti, se il termine non fosse purtroppo reso tanto logoro e banale da un uso troppo spesso indiscriminato e irriflessivo; senza forzature semantiche, possiamo dire che si tratta di una qualità non astratta né speculativa, ma piuttosto di un’attitudine a fare il bene essendo ‘utili’ agli altri: qualcuno infatti traduce anche ‘gentilezza’. ‘Benevolenza’ (agathosùne), o meglio ancora forse ‘benignità’: la quintessenza stessa della bontà, tant’è vero che il termine compare solo a partire dagli scritti biblici (Bibbia greca dei LXX, scritti intertestamentali, Nuovo Testamento), applicato per lo più a Dio. ‘Fiducia’ (pìstis); altri traducono ‘fedeltà’, altri ancora ‘fede’ – ma con minor finezza, perché non si tratta di ‘fede’ come virtù teologale –: è l’atteggiamento aperto di chi, in sostanza, si fida del prossimo ed è sempre disposto a dargli credito. ‘Mitezza’ (praùtes): qualcosa di veramente speciale, se Gesù – che parlava molto di sé, ma sempre in termini oggettivi, non in senso introspettivo, come invece si usa fare oggi – l’attribuì a se stesso in un noto passo di Matteo[5]: «imparate da me, perché sono mite e umile di cuore». Aggiungerei, a ulteriore chiosa, 2Cor 10,1 (ancora una volta!), ove si parla della «mitezza (praùtes) e affabilità (epièikeia) di Cristo».
‘Padronanza di sé’, o ‘autocontrollo’ (enkràteia): è il rigoroso dominio di sé, già presente nei cataloghi di virtù degli stoici; ma in questo contesto non se ne parla certo come risultato di un lungo e faticoso self-training morale di cui il saggio possa andare orgoglioso, ma come di un dono dato dall’alto. Ho lasciato volutamente per ultima la qualità che di tutte le precedenti – e di tutte le altre – è la somma: la ‘carità’ (agàpe). Ecco, scorrendo questo testo, io penso che per chiunque di noi abbia conosciuto a fondo don Paolo, ripensare a lui sia inevitabile.
[1] Antonio Cacciari è docente di filologia ed esegesi neotestamentaria presso la facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. Ha studiato soprattutto l’apologetica greca, Orogene e Agostino.
[2] Tert. Praescr. haer. 7: Quid Athenis et Hierosolymis? quid academiae et ecclesiae?
[3] Gal 5,23: ò dè karpòs tou pnèumatòs estin agàpe charà eirène makrothumìa chrestòtes agathosùne pìstis pràutes enkràteia katà tòn toiùton ouk èsti nòmos.
[4] Cf. Rm 12,15: chàirein metà chairònton, klàiein metà klaiònton.
[5] Cf. Mt 11,29; il termine – che ha in tutto 14 occorrenze nel Nuovo Testamento – è presente solo in due passi evangelici: oltre a questo, ancora Mt 21,5 (ma in una citazione da Zc 9,9s.).
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